L’uomo che cadde sulla Terra

David Bowie in L’uomo che cadde sulla Terra

Ultimamente David Bowie è entrato nel mio campo d’attenzione. Io non ho una gran cultura musicale, ma ascolto musica da quando sono bambino e ho sviluppato un buon orecchio che mi ha permesso di apprezzare fin da adolescente le sue canzoni; e ancor più sono entrato in empatia con ciò che portava nel mondo con la sua figura di alieno androgino e la sua ambivalenza sessuale – vera o presunta che fosse.
Una parte di me si riconosceva, entrava in risonanza e si sentiva meno sola nella propria peculiare diversità.
Devo confessare però che poi nel corso degli anni non l’ho seguito se non distrattamente, forse perché sentivo che per me sarebbe stato troppo impegnativo e avrei rischiato di perdermi nel suo mondo.
Ovviamente la sua morte per dir così “prematura” (aveva appena compiuto sessantanove anni) mi ha colpito profondamente, com’è successo a tanti. Ma in qualche modo ebbi la sensazione che avesse completato il suo compito come umano terrestre e avesse quindi deciso di tornare nella dimensione della sua civiltà stellare o galattica.

Più o meno un mesetto fa la mia amica Francesca ha pubblicato nel suo blog un post molto stimolante in ricordo di Davide Bowie (L’alfabeto delle stelle). Il post mi è piaciuto, ma non ho potuto fare a meno di farle notare che non aveva citato uno dei momenti a mio parere di grande importanza – non solo artistica − nel percorso di Bowie: la sua interpretazione dell’alieno nel film di Nicolas Roeg L’uomo che cadde sulla Terra − tratto dal romanzo omonimo dello scrittore americano Walter Tevis − che a mio parere potrebbe essere in parte letta come una sorta di coming out, di rivelazione della sua vera identità.
La mia amica ha convenuto con me che era una citazione che non si poteva tralasciare (visto anche il titolo del post!) e l’ha aggiunta, e da allora è successo altre volte che parlassimo assieme di Davide Bowie. Più che altro io cercavo di ascoltare perché mi ero reso conto che è una vera conoscitrice dell’opera e della figura di Bowie.
Insomma, questo scambio mi ha in qualche modo fatto ricordare l’importanza che David Bowie aveva avuto per me quando ero da poco uscito dall’adolescenza (ammesso che ne sia davvero mai uscito!). Bowie aveva fatto risuonare in me il richiamo di qualche stella lontana, della mia vera casa.
E sono riaffiorati i ricordi di quegli anni. Avevo letto credo un annetto prima il romanzo di Walter Tevis pubblicato in una seconda edizione da Urania nel 1976 (quella che avevo io). Ne ero rimasto affascinato. Non avevo avuto la minima difficoltà a identificarmi con T.J. Newton, l’alieno antheano che vive il suo soggiorno sulla Terra come una sorta di tortura sopportata solo per la consapevolezza di avere un compito, al quale alla fine, sconfitto dall’eccessiva densità del pianeta alla quale era del tutto inadatto, e dalla stupidità umana, rinuncia. Quella storia aveva fatto risuonare delle corde profonde nel mio cuore. E la scrittura del romanzo era di un livello qualitativamente molto alto. Nei giorni scorsi mi è venuta voglia di rileggerlo. Pensavo di dover cercare su ebay qualche vecchia copia di Urania, e invece ho scoperto che Tevis è stato per così dire “riscoperto” recentemente dalla Minimum Fax, che negli ultimi dieci anni ha pubblicato cinque dei suoi romanzi fra i quali, ovviamente, L’uomo che cadde sulla Terra, in una traduzione riveduta e corretta. Mi ha fatto piacere scoprirlo, e ho acquistato subito l’ebook.

Nei primi mesi del 1978, poco più che ventenne, vivevo a Bologna come studente fuori sede. Dopo un anno al Dams mi ero iscritto alla facoltà di Astronomia, più che altro per il desiderio di acquisire le conoscenze scientifiche necessarie per poter scrivere dei buoni romanzi di fantascienza. L’anno precedente, il 1977, avevo partecipato ai fatti di Bologna dell’11 marzo, ritrovandomi, ovviamente disarmato, in mezzo a una vera e propria guerriglia urbana, e avevo poi vissuto una breve ma intensa storia d’amore finita male, che mi aveva lasciato una profonda ferita nell’animo facendomi precipitare in uno stato di depressione e isolamento da cui faticavo a uscire.
David Bowie mi aveva aiutato. A fine inverno o inizio primavera un cinema d’essai che ogni tanto frequentavo mise in programma L’uomo che cadde sulla Terra. Ovviamente decisi di andare a vederlo, visto l’effetto che la lettura del romanzo aveva avuto su di me. E la presenza di Bowie rendeva ai miei occhi quel film assolutamente imperdibile. In quel periodo lui era sicuramente uno dei miei “avatar” di riferimento.
Da diversi mesi come ho detto ero piuttosto isolato. Talvolta mi lasciavo trascinare in qualche uscita serale dalle due carissime amiche con le quali condividevo l’appartamento, ma spesso restavo in casa e quasi mai uscivo la sera per conto mio. Per di più in linea di massima non mi piace andare al cinema da solo, perciò per farlo dovetti sforzarmi di superare il mio malessere e la mia apatia. Ma ero certo che la visione di quel film per me in quel momento fosse molto importante. E così fu.
La straordinaria interpretazione di David Bowie diede corpo e vita all’alieno del romanzo. Ne fui talmente colpito che iniziai subito la scrittura di un mio romanzo che ispirandosi alla storia del film ne modificava la trama e il significato, e dove il personaggio principale rispecchiava maggiormente i miei tormenti interiori.
Anche quell’impegno contribuì a farmi superare quella “notte dell’anima” in cui mi dibattevo ormai da parecchio. Poi mi buttai nello studio della chimica, della geometria e della fisica. I successi conseguiti in pochi mesi rafforzarono la mia autostima e finalmente riuscii a tornare nel mondo, col cuore ferito ma più forte di prima.
Sarebbero dovuti passare  ancora un paio d’anni prima di un più chiaro risveglio della consapevolezza della mia origine stellare, grazie anche all’incontro telepatico con un extraterrestre che ho già raccontato in un vecchio post (Contatti cosmici. 1: Message in a Bottle). Ma sicuramente David Bowie, l’uomo che era caduto sulla Terra, mi aveva aiutato, aveva contribuito ad innescare un processo interiore dandomi la conferma – attraverso la sua inarrivabile interpretazione dell’alieno antheano e grazie alla sua stessa esistenza – della realtà di ciò che sentivo.
E mi piace pensare che anche ora, dalla sua galassia, Bowie stia continuando in qualche modo a stimolare la coscienza dell’umanità terrestre e a influenzarla positivamente, comunicando con chi e in grado di connettersi a lui, come forse ha fatto con me suggerendomi di scrivere questo post.

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