La rabbia che crea

Tra le altre cose, la pandemia ha avuto l’effetto di un potente amplificatore. Sia a livello individuale che collettivo sono emersi in forte risalto i pregi e i difetti, i punti di forza e le debolezze, le luci e le ombre di persone, coppie, famiglie, gruppi amicali, organizzazioni, istituzioni e via dicendo.
E spesso ciò che è venuto alla luce sarebbe stato impensabile nell’era prepandemica. Un esempio per tutti, la Lombardia, fino a ieri modello di eccellenza sanitaria e di efficienza organizzativa, da un anno nel caos proprio per le carenze e le falle in questi due aspetti.
A livello individuale è successo la stessa cosa: abbiamo magari scoperto dei pregi che non pensavamo di avere ma abbiamo anche dovuto fare i conti con aspetti problematici di noi stessi di cui non eravamo minimamente consapevoli o che in passato avevamo sottovalutato.
Nel mio caso ciò che a più riprese si è presentato con forza è la rabbia.

La rabbia da lungo tempo per me non era certo un problema. Da bambino e fino ai miei vent’anni mi capitava con una certa frequenza di avere accessi di rabbia che sfogavo talvolta all’esterno, ferendo chi mi stava a cuore, e più spesso infierendo emotivamente su me stesso. Poi, grazie soprattutto alla pratica buddista a cui mi ero accostato a ventiquattro anni, ho imparato a gestire la rabbia e a trasformarla, e da allora non è stato più un mio problema. Non voglio dire ovviamente che non mi è più capitato di arrabbiarmi, ma la rabbia svaniva rapidamente e soprattutto non faceva più danni né agli altri né a me stesso.
Perciò mi sono stupito e anche un po’ preoccupato quando si sono ripresentati dei violenti accessi di rabbia che per fortuna, non essendo più un adolescente, non ho sfogato con qualche povero malcapitato ma che sono durati a intermittenza per giorni e settimane e mi hanno fortemente disturbato.
La prima volta è successo a maggio dello scorso anno, quando il governo ha deciso di prolungare assurdamente un già pesantissimo lockdown, per di più con regole assurde sulle visite ai congiunti e compagnia cantante, senza la minima sensibilità per la reale vita di tante persone che dopo due mesi di totale isolamento non avevano magari “congiunti” da andare a trovare ma avrebbero avuto la necessità di incontrare qualche amico e di riprendere un minimo di contatti sociali non virtuali.
Mi è risuccesso alla fine della scorsa estate, quando la Sardegna, dopo che le era stata impedita qualunque forma di controllo sui milioni di turisti in entrata, è stata palesemente accusata di avere irresponsabilmente causato un nuovo esplodere dei contagi.
E recentemente il passaggio della Sardegna dalla zona bianca alla zona arancione per uno zero virgola di uno dei 21 criteri di un algoritmo scientificamente del tutto opinabile ha fatto esplodere una rabbia feroce che solo dopo un giorno sono riuscito ad attenuare almeno un poco.
La mia rabbia era diretta ovviamente verso un governo, e il comitato (pseudo)scientifico che lo affianca, che dopo un anno in cui una gestione sconsiderata della pandemia non solo ha distrutto l’economia e la psiche di milioni e milioni di cittadini ma si è rivelata totalmente inefficace, continua ostinatamente a ripetere gli stessi gravissimi errori, senza alcun riguardo per i diritti umani e civili delle persone.
Non sono un “negazionista”. Penso che davvero il coronavirus sia altamente contagioso e in determinate circostanze possa causare danni gravi e addirittura la morte. Ma mi sembra sempre più palese che la diffusione del coronavirus sia stata e venga tuttora usata dalla maggior parte dei governi mondiali e da chi li controlla (dal cosiddetto “back office”), in complicità con varie istituzioni e industrie sanitarie, per portare avanti un progetto oscuro di limitazione dei diritti individuali, di impoverimento della popolazione e di ulteriore asservimento dell’intera umanità.
Potrei argomentare approfonditamente per motivare queste mie affermazioni, ma non è questo lo scopo di questo post, e perciò invito semplicemente chi non lo ha già fatto a informarsi con mente scevra di pregiudizi al di fuori dei canali e dei media mainstream, ovviamente con grande discernimento perché anche nella controinformazione abbondano verità parziali, interpretazioni preconcette e vere e proprie fake news.
Se ho accennato alla gestione della pandemia è solo appunto perché è stata la causa scatenante della mia rabbia, sicuramente oggettivamente giustificata ma anche dannosa per il mio benessere interiore e in fin dei conti totalmente inutile.
Così ho iniziato a interrogarmi un po’ più profondamente sul senso della mia rabbia, e sulle sue reali origini al di là degli eventi esterni che l’hanno scatenata.
La prima cosa che mi è balzata agli occhi è che la mia rabbia è collegata al senso di impotenza, è una reazione a delle decisioni e a delle imposizioni che trovo ingiuste e immotivate ma che non ho il potere di modificare né di contrastare in alcun modo. La stessa rabbia che mi assaliva quand’ero bambino di fronte a dei trattamenti da parte dei miei genitori o dei mie fratelli che trovavo ingiusti e vessatori (nulla di grave, nessun “abuso”, ma la mia sensibilità di bambino spesso involontariamente non veniva rispettata).
Mi sono anche reso conto che sicuramente questa rabbia è stata amplificata dalle vicende della mia ultima vita, vissuta nella Germania nazista e drammaticamente segnata dall’internamento nel lager di Dachau in qualità di ebreo e omosessuale. Ora rivedere all’opera − pur nelle differenze di contesto e di metodi, e con effetti almeno apparentemente non paragonabili a quelli del nazismo – la stessa mentalità, la stessa fredda e disumana burocrazia, la stessa manipolazione delle menti, la stessa indifferenza per determinati gruppi umani, alla luce di quella traumatica esperienza fa riemergere quegli stessi sentimenti di impotenza e di rabbia provati allora, e suona come un sinistro campanello d’allarme.
Ma siccome il mio impegno da anni ­– e ancora di più fin dall’inizio dell’affrontamento della pandemia – è quello di intraprendere un cambiamento interiore nella convinzione che sia l’unica vera chiave per modificare la realtà esterna, ho cercato di capire la vera natura della rabbia per poterla superare o trasformare. Cosa che nella mia vita ho già fatto tante volte ma che stavolta sembrava non funzionare.
Così mi sono ricordato di una canalizzazione di una decina di anni fa (pubblicata nel mio libro Voci dal non tempo) in cui Gopale, una delle entità ad alta frequenza con cui ero entrato in contatto, ribaltava il comune giudizio sulla rabbia. La rabbia infatti è normalmente vista come un’emozione negativa, da evitare o almeno da tenere sotto controllo. Un’emozione pericolosa, che fa paura e che può portare ad azioni sconsiderate dannose per sé e per gli altri, addirittura all’omicidio.
Senz’altro è anche così, ma Gopale nella sua spiegazione andava oltre.
«Chiamate rabbia» aveva detto, «un’energia creativa molto potente che diventa distruttiva soltanto quando non le è permessa un’espressione fluida. … La rabbia è un’emozione conseguente al non essere stati visti nella propria profonda peculiarità, e dietro la rabbia c’è il dolore. Sono due aspetti conseguenti. L’energia creativa si esprime per essere vista. Quando può mostrarsi senza censure ha una forza costruttiva e dirompente, che diventa rabbia soltanto quando incontra degli ostacoli, altrimenti è una continua trasformazione. E la gioia è l’espressione di questa trasformazione. … Le emozioni della rabbia avvicinano a una potente energia creativa di cui ancora non si conosce appieno la portata. La rabbia è la forza della propria affermazione nella vita. Per essere veramente creativa non deve contenere un giudizio, altrimenti viene incanalata in esperienze negative di sopraffazione. Ma l’espressione della propria vitalità non è sopraffazione, è il dono conseguente alla creatività. Una pianta che fa frutti non si arrabbia, esprime con forza la propria autoaffermazione e riempie con i suoi semi tutto il mondo. È una deformazione della mente etichettare le emozioni con giudizi di valore. Le emozioni sono strumenti di conoscenza profonda dell’essere umano. Fanno parte dell’esperienza umana e accompagnano la conoscenza.»
Rileggendo queste parole tutto mi è diventato più chiaro, e ho intravisto la chiave per affrontare la mia rabbia.
Il punto importante non è cercare di contrastare un potere esterno, ma riuscire ad esprimere in qualche modo con ancora più forza la propria creatività. Quando la possibilità di esprimerci liberamente viene frustrata o impedita, l’energia creativa diventa rabbia, che se è incanalata verso gli altri diventa distruttiva, se è incanalata verso sé stessi conduce all’autodistruzione e se invece viene misconosciuta e repressa porta alla perdita di vitalità e alla depressione.
Analizzando freddamente la mia rabbia di ora e tutte le rabbie del passato fino alla mia infanzia mi è diventato chiaro che ogni volta era all’opera questa spirale perversa. Anche questa volta, proprio in un momento in cui, rinfrancato dalla zona bianca in Sardegna, stavo facendo nuovi progetti creativi nel mio lavoro e nella sfera personale, all’improvviso mi sono ritrovato nuovamente imprigionato in una gabbia costruita da altri.
Alla luce delle parole di Gopale un paio di punti mi sono stati subito chiari. Prima di tutto dovevo ripulire l’energia della rabbia dal giudizio: il giudizio sul governo, sul ministro Speranza, sui poteri oscuri (del resto loro stanno semplicemente svolgendo diligentemente il loro ruolo all’interno di un progetto di luce che li trascende). Poi dovevo indirizzare concretamente questa energia nella creatività, nell’espressione di me stesso. E qui è importante specificare che la creatività non riguarda certo solo l’espressione artistica. Qualunque attività che ci permetta di esprimere noi stessi è creativa. Si può essere creativi ed esprimere sé stessi nelle relazioni personali, nella cura di una pianta, nel modificare l’arredamento di una stanza, nella scrittura di un diario o di una poesia anche se nessuno magari la leggerà. Ognuno può trovare nella propria quotidianità dei modi per esprimere sé stesso ed essere creativo. E quando alcuni modi vengono preclusi dalle circostanze esterne o dai limiti personali la cosa più saggia da fare è trovarne altri. Questo del resto è quello che è successo ad esempio a tanti artisti in quest’anno di pandemia. Io ho la fortuna di fare un lavoro estremamente creativo, ma ovviamente questo non basta perché è solo una parte della mia vita. Per trasformare la rabbia in creatività basta però semplicemente che trovi dei modi possibili di esprimere me stesso anche durante questa forzata prigionia, magari dei nuovi modi a cui nel passato non ho mai pensato. E anche questo post è un modo per esprimere me stesso, per creare.

Un’ultima considerazione è necessaria. Anche conoscendo queste dinamiche, non sempre è possibile attuarle virtuosamente perché spesso le emozioni come il dolore o la rabbia sono talmente intense da sopraffarci, rendendoci almeno momentaneamente incapaci di fare alcunché di concretamente positivo. In questo caso l’unica soluzione, a mio parere, è permettere all’emozione di sfogarsi pienamente così da attenuarla e poterla trasformare.
Il metodo che uso io è molto semplice. Mi sistemo in una posizione comoda, sdraiato o in una poltrona, in una stanza in penombra, magari con una mascherina sugli occhi, e ascolto una musica evocativa che mi sembra adatta alla situazione, usando gli auricolari per isolarmi maggiormente dall’ambiente esterno. Mi rilasso portando l’attenzione sul respiro per alcuni minuti e lascio che l’emozione che voglio trasformare emerga liberamente, senza negarla, senza giudicarla e senza alcuna precisa volontà di neutralizzarla o trasformarla. La lascio semplicemente emergere per quella che è in tutta la sua intensità. Questo all’inizio può essere molto doloroso, visto che stiamo parlando di emozioni per così dire disturbanti, e la rabbia ad esempio, come spiega Gopale, è sempre connessa al dolore. Ma mano a mano che l’emozione emerge e si intensifica, dopo essersi sfogata si attenua e si armonizza in maniera naturale. Non bastano ovviamente pochi minuti. Io scelgo una musica che duri almeno tre quarti d’ora o addirittura un’ora, e quando la musica finisce chiudo l’esercizio. Se l’emozione è molto forte o ha radici profonde ci possono volere più “sedute” per completare il processo. Ma ne vale la pena perché alla fine ci sentiremo molto più leggeri e avremo capito qualcosa in più di noi stessi.
Buona rabbia e buona creatività.

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